Quanto lavoro intellettuale serio sarebbe giusto cercare di svolgere ogni giorno? (intendiamoci non parlo di cose come partecipare a delle riunioni avendo la testa altrove oppure riorganizzare l’armadietto della cancelleria).

Sembra una domanda complicata. Pensiamo che la creatività sia una cosa sostanzialmente misteriosa e che gli esseri umani siano estremamente diversi tra loro. E poi esistono tanti tipi di lavoro da colletto bianco: perché immaginare che la risposta possa essere uguale per avvocati, accademici, banchieri e ingegneri?

Ma la risposta non è una versione più elaborata del classico “dipende”. La risposta è: quattro ore.

Questa, perlomeno, è la convincente risposta a cui è giunto Alex Pang nel suo libro Rest: why you get more done when you work less (Riposatevi: perché ottenete di più lavorando di meno).

Ho già sostenuto quanto sia vera l’affermazione del sottotitolo del libro di Pang, e quanto l’idea della giornata di lavoro dalle nove alle diciassette sia un cimelio della rivoluzione industriale che non ha alcun valore nel moderno “lavoro della conoscenza”.

Siamo creature ritmiche, e la parte del nostro ciclo vitale che permette al cervello di non sovraccaricarsi è essenziale

Ma quel che colpisce, nel ragionamento di Pang, è la sua specificità. Nell’occuparsi di storia e di mestieri creativi, continua a imbattersi nello stesso fenomeno. Charles Darwin lavorava per due blocchi di novanta minuti al mattino, poi per un’altra ora più tardi. Il matematico Henri Poincaré dalle dieci del mattino a mezzogiorno e poi dalle cinque alle sette del pomeriggio. Analoghe abitudini si ritrovano nelle routine lavorative quotidiane di Thomas Jefferson, Alice Munro, John Le Carré e molti altri.

Per evitare di essere accusato di aver citato solo esempi che avvalorano il suo ragionamento, Pang usa le ricerche dello psicologo svedese Anders Ericsson, il cui studio dei violinisti – che costituisce peraltro la base della discussa “regola delle diecimila ore” – conferma le sue scoperte. Siamo creature ritmiche, e quella parte del nostro ciclo vitale che permette al cervello di non sovraccaricarsi è altrettanto essenziale per il risultato finale.

Il punto non è che il mondo sarebbe un posto migliore se nessuno si sentisse obbligato a lavorare per molte ore, nonostante questo sia vero. Il fatto è che per quanto riguarda qualsiasi lavoro minimamente creativo, una cultura che non dà spazio al riposo è condannata alla sconfitta, anche solo per quanto riguarda i risultati finali.

Adam Smith lo aveva previsto: “L’uomo che lavora in maniera così moderata da riuscire a lavorare in maniera costante non solo preserva più a lungo la propria salute ma, nel corso di un anno, esegue la maggiore quantità di lavoro possibile”. Pure Leonard Woolf, descrivendo le sue abitudini lavorative e quelle di Virginia, sosteneva le molte virtù del “poco e spesso”, quando diceva: “È sorprendente quanto possa produrre una persona in un anno, che si tratti di pagnotte, libri, vasi o immagini, se lavora duro e in maniera professionale per questo obiettivo”, tenetevi forte, “per tre ore e mezza ogni giorno”.

E forse la cosa non vale solo per i lavori creativi. Mezzo secolo fa l’antropologo Marshall Sahlins sollevò un polverone quando suggerì che gli esseri umani delle società di cacciatori-raccoglitori non lottassero costantemente per la sopravvivenza ma che, al contrario, fossero riusciti a costruire “the original affluent society” (la società benestante delle origini) limitando le loro necessità e poi soddisfacendole. Utilizzando dati provenienti dall’Africa e dall’Australia, ha calcolato il numero di ore che i cacciatori-raccoglitori dedicavano al lavoro ogni giorno al fine di nutrire tutta la comunità. E la risposta è proprio quella: “Dalle tre alle cinque ore”. Non pensate che sia arrivato il momento di accettare il suggerimento?

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è uscito sul quotidiano britannico The Guardian.

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